Che cos’è la Moda? In tanti studiosi hanno provato a definirla: da ciò che è l’abbigliamento, a la moda come trend nuovi di mercato.
L’unica certezza che abbiamo su questo settore, è che ad oggi è uno dei più inquinanti e crea numeri sconcertanti sugli scarti tessili.
Infatti la Moda per com’è raccontata negli editoriali di Vogue o nella celebre pellicola “Il Diavolo Veste Prada”, rappresenta una piccola parte di consumi. I marchi di fascia alta nei grandi gruppi come LVMH o Kering fatturano tanto, ma non hanno gli stessi volumi di produzione e vendita del fast fashion.
Cos’è il fast fashion?
Il fast fashion è il sistema di business caratteristico di marchi di media-bassa fascia come H&M o Zara, che si basa sostanzialmente sulla vendita di tanti capi dal design spesso rubato in tempi brevi dalle passerelle, di qualità bassa, e venduti a basso prezzo. Il fast fashion non punta sul fatto e dell’esclusività, come invece fa la Moda tradizionale, ma sul concetto di “democratizzazione del lusso”, dove anche chi ha poche disponibilità economiche può permettersi il design della stessa camicia prodotta da Gucci, ma firmata Zara.
Il fast fashion ha le sue radici negli anni ’90, a seguito della globalizzazione della moda e dei marchi-multinazionali dello sportswear, ma solo nell’ultimo decennio ha iniziato ad esserci consapevolezza sul sistema che sorregge il fast fashion.
Il problema alla base di tutto è l’enorme sovrapproduzione di capi, che scatena un effetto domino su tutto.
Solo nel 2021, H&M e Zara hanno immesso sul mercato complessivamente oltre 10.000 nuovi modelli, con la media di una collezione nuova la settimana.
E non sono le aziende peggiori.
Da un paio di anni si sono affermate nuove aziende legate al fast fashion che, per superare la concorrenza ormai acclamata dei marchi che gìà da più di vent’anni regnano il mercato, hanno deciso di fare la guerra sui numeri. Stiamo parlando dell’ultra fast fashion.
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Cos’è l’ultra fast fashion?
L’ ultra fast fashion è semplicemente un fast fashion all’ennesima potenza, dove le nuove collezioni non sono più ogni settimana, bensì ogni giorno.
Aziende come Shein hanno una media di 4.000 nuovi prodotti caricati ogni giorno sul loro sito, di cui 1.000 di abbigliamento, e su un costo inferiore rispetto ai competitors del fast fashion tradizionale.
Il risultato di questa spietata guerra tra colossi del tessile sono condizionali ambientali gravi, condizioni di lavoro in filiera produttiva ancora più gravi, e una spinta infinita verso un consumismo sfrenato.
La parola ai numeri: quindi, quali sono le emissioni della moda?
L’intero settore della moda ogni anno emette più di un miliardo di tonnellate di gas serra, ovvero il 2% delle emissioni totali.
Inoltre, l’industria della moda è una delle più inquinanti verso le risorse idriche. Si stima infatti che il 20% dell’inquinamento idrico industriale nel mondo è proprio causato dal trattamento e dalla tintura dei tessuti.
Ogni abito ha un peso alle spalle di emissioni e di consumo d’acqua importante: stando al rapporto “Global Fashion: Green is the new black”, per produrre una maglietta servono circa 2.700L di acqua, la quantità media bevuta da una persona in quasi 3 anni, e ha alle spalle 2,2 kg di CO2. Per un paio di jeans servono invece 7000L, con le carbon footprints di circa 5 kg di CO2.
Ogni anno si stima una produzione di circa 100 miliardi di capi l’anno prodotti dal fast e ultra-fast fashion, con uno spreco di risorse quasi inimmaginabile.
Per quanto riguarda gli scarti tessili invece, i numeri non sono altrettanto rassicuranti. Data la difficoltà nel riciclare e riutilizzare i tessuti trattati, secondo una ricerca della Fondazione Ellen MacArthur, il 73% dei vestiti finisce per essere sepolto in discarica o incenerito, il che equivale a bruciare un camion della spazzatura pieno di prodotti tessili ogni secondo; il 12% viene riciclato, ma per lo più si tratta di applicazioni a basso valore difficili da rimettere in circolo, come stracci impiegati per la pulizia e la manutenzione; solo l’1% finisce per chiudere il ciclo, trasformandosi in altrettanti nuovi abiti.
Ora provate a moltiplicare questi numeri per i numeri di produzione del fast fashion e dell’ultra fast fashion, e vi accorgerete subito di quanto la situazione sia grave.
Esiste una soluzione per continuare ad acquistare abiti, riducendo però il proprio impatto ambientale e la produzione di rifiuti tessili?
Sì, acquistando second hand.
Sembra un’azione banale, minima, che però raccoglie in sé un concetto rivoluzionario: quello della Moda Circolare.
Il sistema della moda circolare, come in generale l’economia circolare, si basa sul concetto di riutilizzare i prodotti usati, che non hanno raggiunto la fine del loro ciclo di vita, senza produrre o acquistare nuovo, in modo da mettere in moto un circolo di riuso di ciò che già c’è, senza mettere sotto stress le ormai irrisorie risorse grezze che ci rimangono a disposizione.
Il sistema, oltre ad avere il vantaggio di sprecare meno materia prima per produrre l’oggetto di consumo in sè, aiuta anche a contenere le produzioni secondarie come gli imballaggi degli oggetti di consumo, e contenere la produzione di rifiuti, agendo così a 360 gradi sull’abbattimento delle emissioni e dell’impiego di risorse.
Tradotto in parole povere, la moda circolare si basa per lo più sul second hand, ovvero acquistare capi di seconda mano.
Esistono esempi di applicazione differente della moda circolare come per esempio la creazione di nuovi capi utilizzando dead stock di tessuti che altresì finirebbero in discarica, oppure la rielaborazione di vestiti vecchi come accade per l’upcycling.
Diciamo però che l’acquisto del second hand è sicuramente l’azione più pratica, immediata e quotidiana che ognuno di noi può mettere in atto.
In paesi come UK, i negozi di seconda mano sono tanti e sono diffusi da tempo, grazie anche alle associazioni no profit che gestiscono i famosi “charity shop”, dove per poche sterline si possono acquistare capi e oggettistica di seconda mano.
Qui invece sono meno diffusi i negozi e più i “mercatini delle pulci”, essendo l’Italia un paese legato molto alla compravendita di antiquariato e modernariato.
Non mancano però gli esempi virtuosi di catene di vendita second hand a 360 gradi.
Leotron è uno di questi.
Leotron è la società di franchising che si occupa di due grandi catene dell’usato in Italia: Mercatopoli e BABYBAZAR.
Mercatopoli è uno dei maggiori negozi second hand, occupandosi non solo di oggettistica e mobilio, ma anche di vestiti e accessori.
BABYBAZAR invece rappresenta al 100% un modello di economia circolare e moda circolare. Come suggerisce il nome, la catena si occupa principalmente di moda bimbo, una delle categorie più problematiche nel settore tessile. Questo perchè i bambino e i ragazzi hanno una crescita molto rapida, e spesso i vestiti vengono acquistati per essere poi solo utilizzati solo per un paio di mesi.
Da BABYBAZAR non solo puoi acquistare capi di seconda mano in perfetto stato, ma anche venderli.
L’usato non è solo la scelta più sostenibile, è anche la più economica.
Spesso i capi eco-friendly vengono subito ricollegati a prezzi alti e inaccessibili, questo perchè effettivamente i vestiti prodotti da una vera filiera sostenibile, hanno un costo di produzione più alto.
Ma il concetto più ecologico che possiamo mettere in atto nella nostra vita, è quello di comprare ciò che già è stato prodotto e usato, dandogli una seconda o terza vita, ovvero acquistare second hand dove, a parità di qualità con il nuovo, il prezzo è decisamente inferiore.
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